Rivista online per la scuola per promuovere l’innovazione nella didattica- ISSN: 2239-6187
 

Comunicare a scuola

 Stili, teorie e processi. Lo storytelling per coinvolgere ed esprimere emozioni

Annamaria Bove, Docente di Lettere, 1° Istituto Comprensivo Nocera Inferiore (Sa), Giornalista Pubblicista – boveam@gmail.com

Barbara Ruggiero, Laureata in Scienze della Comunicazione con specializzazione in Giornalismo e Media Education, Giornalista Pubblicista – barruggi@gmail.com

Premessa

“Comunicazione: in senso ampio e generico, l’azione, il fatto di comunicare, cioè di trasmettere ad altro o ad altri”1.

Oggi più che mai tutto è comunicazione. Nella nostra società è quasi impossibile non comunicare: lo facciamo attraverso i gesti, l’abbigliamento, le espressioni, prima ancora che con la parola e con i mezzi a nostra disposizione. Perfino il silenzio è comunicazione. Quanto ne siamo consapevoli? E quanto lo sono i nostri alunni?

La comunicazione, inoltre, è sempre più una materia trasversale: interessa la linguistica, la semiotica, la sociologia, la psicologia, fino ad arrivare a materie più settoriali come la pubblicità, lo studio dei mezzi di comunicazione e il giornalismo, tanto per fare qualche esempio.

Abbiamo imparato a interagire con tablet, smartphone e PC utilizzandoli come vere e proprie estensioni del nostro corpo, ne abbiamo spesso piena padronanza; ma la nostra capacità di comunicare, o meglio la nostra attenzione a cosa e come comunichiamo, sembra diminuire. Diverso il discorso per i giovanissimi: sono nativi digitali2, nati e cresciuti nel pieno dell’era della comunicazione, con il passaggio dai mass media ai personal media. I giovani hanno più padronanza degli adulti nell’uso dei mezzi, tanto che spesso ci supportano mentre siamo alle prese con le nuove tecnologie. Ma la presenza di strumenti cognitivi più moderni, adusi a confrontarsi con i nuovi mezzi di comunicazione, equivale a saper comunicare correttamente? L’equazione sarebbe troppo semplice, quasi semplicistica. È frequente incrociare giovani bravissimi a destreggiarsi con gli strumenti della comunicazione e a smanettare con le nuove tecnologie, che inciampano poi, clamorosamente, appena devono mettere nero su bianco una frase o che si trovano in difficoltà per tenere un discorso in pubblico.

Insomma, essere nativi digitali non significa proprio essere bravi comunicatori. In ballo ci sono tanti concetti e nozioni che riguardano ambiti diversi e che, se analizzati, possono aiutarci a comunicare meglio. Con o senza strumenti tecnologici.

La comunicazione come relazione

Comunicazione è “un processo di scambio di informazioni e di influenzamento reciproco che avviene in un determinato contesto”3.

D’altronde, che la comunicazione serva soprattutto a condividere qualcosa è evidente già dall’etimologia della parola. Comunicazione: dal latino cum (con) e munire (legare, costruire, rendere partecipe); parliamo della dimensione della condivisione, insomma.

Ogni comunicazione ha un contenuto e un aspetto di relazione che definiscono i rapporti tra gli interlocutori: definiscono il modo in cui i dati vengono trasmessi e permettono di capire come deve essere interpretato il messaggio.

A questo punto è importante ricordare come anche il silenzio, e quindi l’assenza di comunicazione, spesso è utile a comunicare qualcosa: magari proprio la volontà di non relazionarsi con l’altro.

Resta inteso che la comunicazione deve essere intesa necessariamente come relazionale. Non c’è comunicazione senza relazione. Perché un processo comunicativo possa avvenire, c’è bisogno di un canale (giornale, tv, radio, ma anche l’aria, il corpo …) e di un codice (come per esempio una lingua, o un sistema strutturato di segni). L’elencazione di queste caratteristiche porta direttamente alla teoria matematica della comunicazione, elaborata, non a caso, da due matematici, Shannon e Weaver, con lo scopo di ridurre il cosiddetto “rumore” della comunicazione. Secondo il modello, i due sistemi sono un emittente (o fonte) e un ricevente (o destinatario). Il messaggio parte dall’emittente e arriva al ricevente che lo “decodifica”, passando attraverso un “canale” che può anche essere disturbato da un “rumore”. La teoria è definita anche teoria matematica o lineare della comunicazione.

 

Fonte —-> codifica —-> canale —-> decodifica —-> ricevente4

 

Negli anni, gli studi sulla comunicazione si sono concentrati anche sulle funzioni che riguardano l’intero processo della comunicazione e che spesso coesistono senza essere indipendenti l’uno dall’altra. Sull’argomento, impossibile non citare il circolo di Praga e, in particolar modo, Jakobson. Sei le funzioni della comunicazione da loro individuate: f. emotiva/espressiva (che riguarda gli stati d’animo della fonte); f. fàtica o di contatto (che riguarda il canale: il “pronto” a inizio telefonata); f. poetica (riguarda il messaggio e lo stile); f. metalinguistica (interessa il codice); f. referenziale/informativa (riguarda il contesto); f. conativa (interessa principalmente il destinatario).

Come si comunica

Non esiste un solo modo di comunicare, lo abbiamo detto finora. Si è soliti distinguere tra comunicazione verbale, non verbale (postura, espressione del viso) e paraverbale (intonazione, pause del discorso, tono della voce). Per una comunicazione efficace è importante che i tre livelli di comunicazione vadano di pari passo. Quante volte abbiamo sentito dire che il linguaggio del corpo dice la verità o che spesso smentisce quello che diciamo a parole? Pensiamo alla sicurezza di una frase tradita dal tremore della voce o dai gesti delle mani. Il linguaggio del corpo è a contatto con le nostre emozioni più profonde e spesso può non confermare quello che diciamo. Quindi, attenzione se stiamo mentendo!

A proposito della comunicazione non verbale, uno degli elementi fondamentali è la prossemica. Secondo l’antropologo David Hall5, gli esseri umani suddividono lo spazio che sta intorno in diversi settori: in ogni settore è consentito l’accesso a un tipo di persona (tutto dipende dal livello di confidenza o di “intimità” che abbiamo con la persona a cui ci rivolgiamo); a ogni settore corrisponde un tipo diverso di comunicazione.

La mimica facciale resta uno dei fattori principali della comunicazione non verbale: esprime in modo diretto e sincero lo stato emotivo di chi sta comunicando. Come? Pensiamo alle emoticon che spesso accompagnano i messaggi. Non servono proprio a trasmettere uno stato d’animo, del tutto simile a quello della mimica facciale, in un tipo di comunicazione in cui non si comunica direttamente lo stato emotivo? Pensate a quanti fraintendimenti ci sarebbero in una frase scritta senza un’emoticon con il sorriso …!

Nell’ambito della mimica facciale, sarà il caso di citare anche lo sguardo: è un fattore che comunica in modo chiaro lo stato d’animo di una persona. Per esempio, una persona che sposta gli occhi dallo sguardo dell’interlocutore comunica la volontà di disimpegnarsi per ragioni che vanno dalla timidezza alla poca attenzione o indifferenza.

Anche la postura comunica. Nella nostra cultura, una persona con le mani dietro al capo comunica superiorità, così come stare in piedi con le mani ai fianchi; stare in piedi a braccia conserte, invece, comunica chiusura. Pure l’abbigliamento ci dice qualcosa senza parlare: dice molto sulla nostra appartenenza sociale e su dove siamo diretti. Ci sono situazioni in cui è richiesto uno stile comunicativo particolare anche per quello che riguarda l’abbigliamento (la consuetudine di vestire di nero ai funerali o la cura del proprio look in occasioni di colloqui di lavoro, tanto per fare un esempio).

Per quanto riguarda la comunicazione paraverbale, assumono una particolare rilevanza il volume, il tono e il ritmo della voce. Si tratta di aspetti che dicono molto dal punto di vista emotivo: se prestiamo attenzione alla comunicazione paraverbale, riusciamo a capire più facilmente lo stato d’animo della persona che abbiamo di fronte. Il volume della voce troppo alto, per esempio, può trasmettere un messaggio di prevaricazione; se parliamo più a bassa voce possiamo trasmettere un messaggio di quiete; al contrario, bisbigliare qualcosa è sinonimo di incertezza, a meno che non ci troviamo di fronte a una comunicazione “di confidenza”.

In estrema sintesi è il caso di ricordare sempre la regola delle 5 C per non fallire nell’ambito della comunicazione verbale: chiarezza, completezza, concisione, concretezza e correttezza.

Comunicare a scuola

La comunicazione a scuola, intensa nel senso più ampio del suo significato, coinvolge tutti i soggetti e, quindi, possiamo dire che non è “cosa facile”, tanto che è auspicabile redigere in ogni istituzione scolastica un Piano della Comunicazione.

La scuola ha avvertito l’esigenza di comunicare da qualche decennio: in passato questa attività era ritenuta non necessaria e soprattutto non strategica. La prima apertura del mondo della scuola alla comunicazione è avvenuta con i Decreti Delegati del 1974, con l’ingresso dei genitori nella gestione dell’istituzione scolastica che ha conferito all’istituzione il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica. Un ulteriore significativo passo è rappresentato dall’emanazione della Legge n. 241/1990, che ha stabilito e regolamentato il diritto all’accesso e alla partecipazione del cittadino ai procedimenti amministrativi.

Questi principi sono stati tradotti in istituti giuridici e strutture organizzative dal D.Lgs n. 29/1993, che ha introdotto l’Ufficio relazioni con il Pubblico (URP) e i servizi di controllo interno, assegnando nuove responsabilità ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni, soprattutto in tema di verifica dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi prefissati. Con l’introduzione della Carta dei Servizi in seguito all’emanazione del D.P.C.M. del 7 giugno 1995, ciascuna istituzione scolastica, nel declinare gli impegni assunti verso l’utenza, rende note le modalità di erogazione del servizio pubblico, individuando gli standard qualitativi e quantitativi della propria prestazione.

La vera svolta in tema di comunicazione risale agli anni ’90, epoca in cui l’esigenza di una rendicontazione trasparente dei processi organizzativi e gestionali, viene recepita dal D.P.R. n. 275/1999 che all’art. 3 introduce il P.O.F., lo strumento principale di comunicazione della scuola con gli stakeholders esterni, interlocutori privilegiati e direttamente coinvolti nel processo educativo/formativo.

Con la Legge 150/2000, Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, che prescrive per tutte le pubbliche amministrazioni l’obbligo di informare e comunicare, la comunicazione assurge al rango di dovere istituzionale.

Il Piano della Comunicazione ha il compito di descrivere le responsabilità (Fig.1) e le modalità operative previste dalla scuola per la gestione dei flussi comunicativi sia interni che esterni e per il perseguimento di ben precise finalità e obiettivi. Tra le finalità, la scuola deve assicurare la corretta, sistematica e tempestiva circolazione delle informazioni, sia quelle destinate ai portatori di interesse interni (personale docente e ATA, studenti, famiglie) che esterni (partner di progetto, partner di rete, fornitori, istituzioni, territorio); garantire la reperibilità e la massima fruibilità delle informazioni e delle comunicazioni interne ed esterne; rendere la comunicazione un fattore strategico che concorre alla pianificazione e alla realizzazione dei processi attivati; promuovere, attraverso una comunicazione efficace e sistematica, la disseminazione sul territorio del progetto educativo in cui si concretizzano la vision e la mission della scuola; attivare canali di ascolto permanenti che rendano la comunicazione un efficace strumento per il miglioramento continuo.

Obiettivi, dunque, della scuola sono soprattutto attrarre nuovi iscritti, rafforzare le relazioni esistenti, raggiungere nuovi territori e interlocutori, rinnovare i servizi offerti, stabilire nuove relazioni esterne, migliorare la visibilità dei servizi offerti e individuare nuovi valori e significati da comunicare all’esterno.

 

Fig. 1 – Matrice delle Responsabilità

 

Si tratta di finalità e obiettivi di tutto rispetto ma che si possono ricondurre a un unico comune denominatore, ovvero una comunicazione efficace. La scuola funziona se comunica al suo interno, se tutte le parti comunicano tra loro sia in orizzontale, tra pari, sia in verticale, con i “superiori”. La comunicazione è efficace se lo stile comunicativo è efficace. In poche parole, si comunica non solo producendo un linguaggio e trasmettendo un’informazione ma anche attraverso le relazioni e le emozioni che implicano uno stile comunicativo. Ma proviamo a concentrarci sulla comunicazione tra docenti e studenti e poi sull’importanza della comunicazione per gli alunni oggi.

Lo stile comunicativo e il processo di insegnamento-apprendimento

Il docente crea il proprio stile comunicativo quando riesce a instaurare relazioni e a trasmettere emozioni. Lo stile del docente diviene quindi importante perché da esso dipende anche la percezione che gli studenti hanno dell’efficacia dell’insegnamento. Secondo Norton (1983) tre sono le funzioni principali:

  1. “lo stile è un messaggio circa il contenuto”, quindi lo stile acquista il ruolo di contenuto;
  2. “lo stile crea un’identità comunicativa”, cioè lo stile viene adattato al profilo ed è flessibile, dipende da molte variabili a seconda delle situazioni;
  3. “lo stile è capace di creare delle interazioni”, nel senso che realizza anticipazioni o aspettative, perché può essere percepito dall’interlocutore in modi diversi.

Lo stile, dunque, diviene un modo per presentarsi agli studenti. Norton ha individuato, attraverso le sue ricerche 11 stili comunicativi individuali che preferisce distinguere in due grandi insiemi:

  1. dominante, drammatico, animato, polemico, aperto, d’impatto (comportamento comunicativo “attivo”, in evidenza il fare e la capacità di interagire verbalmente);
  2. attento, amichevole, rilassato (comportamento comunicativo aperto verso il ricevente).

Quindi, Norton ha esteso lo stile comunicativo individuale all’ambito educativo. Definendo che “lo stile comunicativo dell’insegnante è il risultato dello stile specifico individuale con lo stile di comunicazione di certi contenuti disciplinari in una certa classe, in un certo ambiente, con un gruppo di studenti”. Da ciò deriva che lo stile dell’insegnante dipende da molte variabili: il contesto, la scuola e la sua organizzazione progettuale, il gruppo classe. Lo stile è rigido, modificabile, in evoluzione? L’insegnante cambia a seconda dei contesti? Cambia nel tempo? Di certo la comunicazione, quella comunicazione efficace, è fondamentale per instaurare un clima di classe sereno basato su rapporti/relazioni positive.

Il digitale e la società dell’informazione

Tutto quanto analizzato fino a questo momento deve fare i conti con una novità per certi versi rivoluzionaria che riguarda il mondo della comunicazione: il digitale. I new media (e pensiamo agli smartphone, ai tablet, ai PC, alla stessa internet …) si sono imposti in maniera più rapida e radicale rispetto a quanto accaduto con i media tradizionali e la loro presenza pervasiva nella nostra società ci mostra quanto sia impossibile farne a meno. Il grosso dell’innovazione tecnologica avviene intorno alla metà del Novecento, con l’avvento del PC, un computer “personale”, come dice lo stesso nome che va di pari passo con la crisi dei formati culturali generalisti (con particolare riferimento ai mezzi di comunicazione di massa).

I nuovi media consentono trasmissioni uno a uno, in versione broadcast, in tempo reale e in differita: trasformano, concretamente, il consumatore anche in produttore (di qui il termine prosumer). Questa portata innovativa implica, chiaramente, la necessità di nuove competenze da parte dei consumatori; si tratta di competenze che i giovani hanno dalla nascita, essendo immersi in piena era dell’informazione (non a caso si parla di “nativi digitali”). Spesso, tuttavia, le competenze elementari, che per i giovani sono innate, non corrispondono a un uso corretto degli strumenti della comunicazione. Come dire: saper guidare una macchina non equivale ad avere un’ottima guida, attenta e responsabile. Urge, allora, una educazione ai media, che insegni, anche ai nativi digitali, come comunicare meglio, come utilizzare gli strumenti a disposizione per comunicare bene, eticamente e in maniera responsabile. Saper scrivere una presentazione in Power Point non significa avere a disposizione i contenuti o realizzarla in maniera esaustiva; così come avere più account social non significa essere capaci di comunicare al meglio su più piattaforme.

Spesso chi non conosce il mondo dei nuovi media parla solo dei pericoli; per proteggersi dai rischi è solo necessario “lavorare” sulle competenze nell’uso delle nuove tecnologie. E per quanto i giovani abbiano più dimestichezza con i nuovi media, appare evidente come la sicurezza dei più giovani passi dall’alfabetizzazione degli adulti (insegnanti e genitori, tanto per fare un esempio). E, sia chiaro, l’educazione ai media non è una semplice trasmissione delle conoscenze tecniche; si tratta di capire come possono essere utilizzati i media (non solo quelli digitali), quali sono le opportunità e quali i rischi a essi connessi, e come questi possano tornare spesso utili anche alla didattica.

Lo storytelling

Può una semplice presentazione in ppt far capire che esiste un problema di comunicazione? I giovani sanno comunicare le loro conoscenze? Sono abili comunicatori? È molto difficile trovare studenti che riescano, per restare nel discorso ppt (o qualsiasi altro tipo di presentazione), a trasmettere le loro conoscenze. La bella presentazione in Power Point o con altri strumenti messi a disposizione dall’online spesso non basta. I contenuti scritti e proiettati nel corso di un incontro non sono spesso esaustivi: non ci dicono niente sulla preparazione dell’alunno che, spesso, si trova suo malgrado costretto a leggere pari pari quanto scritto allo schermo del PC senza enfasi, senza interesse, magari voltando le spalle agli uditori per leggere meglio. Qualcosa allora non funziona. Saper comunicare non è impacchettare una magnifica presentazione da leggere in pubblico; saper comunicare significa trasmettere emozioni, pathos, coinvolgere, affascinare chi ascolta.

E allora, come risolvere il problema? Tiriamo in ballo lo storytelling, tanto per fare un esempio. È uno dei termini stranieri di cui sentiamo parlare in lungo e in largo negli ultimi anni.

Cos’è? La capacità di organizzare tutto quello che dobbiamo dire in una struttura narrativa: non anonime slide da leggere agli uditori; ma punti del discorso che tengono alta l’attenzione degli ascoltatori. Pensiamo, per esempio, alla capacità di creare percorsi con le slide che possano stimolare ulteriormente la curiosità sugli argomenti trattati. Narrare, raccontare è ciò che gli studenti devono imparare, perché attraverso la narrazione si comunicano emozioni. Lo storytelling diviene dunque una “disciplina” fondamentale per essere ascoltati ma anche, un domani, quando si è in cerca di un lavoro, per essere scelti.

Il National Storytelling Network definisce lo storytelling come “l’arte interattiva di usare parole e azioni per mostrare gli elementi e le immagini di una storia incoraggiando l’immaginazione dell’ascoltatore”. Quali i fattori che rendono una storia migliore? (Fig. 2).

 

Fig. 2 – Fattori di successo dello storytelling.

 

Perché lo Storytelling funziona? Sicuramente per diverse ragioni:

  • perché le storie ben raccontate emozionano;
  • perché favoriscono l’immedesimazione del lettore nella narrazione;
  • perché veicolano valori;
  • perché si incidono nella memoria.

Lo Storytelling, dunque, risponde a una necessità importante: reinventare il modello della comunicazione partendo proprio dalle emozioni. Il discorso vale per alunni e docenti.

Non dimentichiamo mai che insegnare significa comunicare!

 

Approfondimenti

Marina Giampietro – La comunicazione in classe: stile comunicativo del docente ed insegnamento efficace tratto da “L’educazione socio affettiva nelle scuole” Editrice BERTI Piacenza (2004)

Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966 Edward T. Hall La dimensione nascosta di (Bompiani, 1968)

Norton R. Communicator Style Measure. Sage Pubblications, Inc. Beverly Hills (1983)

 

Link

https://storynet.org/what-is-storytelling https://goo.gl/aRSJum http://digitalstorytelling.coe.uh.edu/index.cfm

 

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Note

  1. Definizione tratta dal vocabolario Treccani.
  2. L’espressione “nativi digitali” è stato coniata da Marc Prensky e indica la generazione di chi è nato e cresciuto in corrispondenza con la diffusione delle nuove tecnologie informatiche. Solitamente il termine è contrapposto a immigrati digitali, persone che hanno maggiore difficoltà con la conoscenza e l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione.
  3. Definizione di Watzlawick.
  4. Schema sintetico della teoria matematica della comunicazione elaborata da Shannon e Weaver.
  5. E. Hall, La dimensione nascosta.